teatroterapia

Incontriamoci in scena

Un’esperienza di costruzione teatrale per una cultura dell’integrazione

 

Esiste una lunga storia di rapporti tra arte, creatività, laboratori artistici e psichiatria.
Giorgio Bedoni e Bianca Tosatti in “Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile” scrivono che l’ “Art des fous” ha impegnato nel corso del Novecento la migliore tradizione psichiatrica europea, producendo una florida letteratura sullo studio delle creazioni artistiche dei pazienti psichiatrici, tanto da rendere incompleta una storia della psichiatria che intenda prescindere da essa.

Ne sono un esempio le magnifiche pagine di Ludwig Binswanger sul manierismo schizofrenico, gli scritti di Eugene Minkowski e, in anni più recenti, le riflessioni di Franco Basaglia sulle forme d’arte nella psicosi. Il termine art des fous tuttavia individua un’epoca precisa e un teatro di espressione artistica altrettanto particolare e definito: l’asilo manicomiale. All’inizio, nei manicomi i laboratori e le attività artistiche avevano soprattutto una funzione oggettivante e pseudoscientifica, cioè avevano scopi diagnostici o organizzativi. Una delle prime esperienze in questo campo fu quella portata avanti dal marchese De Sade (1740-1814) il quale, rinchiuso nel manicomio di Charenton allestiva lavori teatrali, alcuni scritti da lui stesso, nei quali recitavano i pazienti. Anche nell’Ospedale di Aversa, nello stesso periodo, l’abate Giovanni Maria Linguiti all’interno della sua “cura morale” dà grande rilievo alle rappresentazioni teatrali. Secondo lui il recitare un personaggio la cui “passione” o “idea fissa” sia opposta a quella che affligge il malato consente a quest’ultimo di liberarsi dalla sua “idea fissa” originaria e quindi diventa un vero e proprio strumento terapeutico.

Dopo la rivoluzione della legge 180 del 1978, promossa e voluta da Basaglia, con cui venivano chiusi i manicomi e i pazienti deistituzionalizzati, l’espressione artistica ha spesso rappresentato una grande risorsa e un terreno di confronto e incontro per tutte le figure che gravitano intorno al disagio, dai familiari agli operatori, aiutando la società ad affrontare la paura della malattia mentale e definire nuove modalità di cura e assistenza. L’espressione artistica in questo nuovo contesto, privilegia il dare la parola alla persona, favorendo un ruolo soggettivante che promuove gli aspetti del mondo interiore: un modo di trovare un posto di fronte all’invisibile e all’indicibile, che è la malattia mentale. La malattia mentale, infatti, spesso mutila gravemente la comunicazione e la condivisione creando una solitudine ontologica dolorosa.
A tale proposito, è importante sottolineare, con Keynes (1995, in Caddeo 2005) che la presa in carico dell’immaginario creativo, come espressione artistica e soggettiva di mostrare un sentire, possa costituire una comprensione solidale con l’altro e annullare la discriminazione sano-malato in termini di pregiudizio.
La transazione sul piano dell’immaginario permette infatti l’accesso al mondo psichico di malati che per profondi motivi di insicurezza si difendono dal rapporto verbale, o si sentono influenzati da questo nel loro pensiero. Con questo particolare tipo di comunicazione attraverso i mediatori artistici quali la danza, il teatro, la pittura, il disegno, la scrittura e la poesia, il paziente può attingere al vasto mondo dell’immaginario e del simbolico utilizzando canali diversi, modalità utile soprattutto nei casi in cui c’è difficoltà ad usare il linguaggio verbale.
Uno dei privilegi dell’essere umano è proprio la sua capacità di essere creativo, che emerge nella prima infanzia e si mantiene poi, in un modo o nell’altro, per tutta la vita. Le persone con disabilità non fanno certo eccezione. Poiché la capacità creativa può essere molto sviluppata o, al contrario, può essere un potenziale ancora ampliamente inesplorato, l’arte drammatica può aiutare proprio a scoprire e godere della forza della creatività e della giocosità nel contesto di gruppo. Ogni persona possiede una combinazione unica di abilità e disabilità e il gruppo di teatro è un contesto in cui i partecipanti possono sperimentare le cose in modo sicuro e scoprire le proprie capacità, i propri limiti e le proprie preferenze in un modo nuovo e più divertente rispetto alla quotidianità. Questa esperienza, oltre essere divertente, può avere grandi benefici su altri piani, che variano a seconda dei partecipanti, del contesto e degli obiettivi del gruppo, come ad esempio: aiutare un gruppo ad acquisire coesione; aumentare la tolleranza, il rispetto e la comprensione reciproca; migliorare l’autostima individuale e la capacità comunicativa; aumentare la consapevolezza e la capacità di valutare i limiti fisici, sociali ed emozionali; sviluppare le abilità sociali, fisiche, verbali e di autotutela, la spontaneità, la capacità di compiere scelte e l’assertività, l’immaginazione e la capacità di giocare; aiutare a conoscere persone, luoghi e tempi diversi dai soliti.
Elemento fondamentale del lavoro con il laboratorio è il riconoscere a ogni partecipante la qualità del suo impegno nel lavoro, stimolando l’accoglienza delle diversità. La varietà di personalità e di personaggi interni arricchisce infatti il lavoro, nonché, in qualche modo, lo facilita. Infatti, come per il rapporto strettamente psicoterapeutico, considerato in termini di incontro tra i due mondi soggettivi del professionista e del paziente, anche nelle relazioni del laboratorio teatrale, tra conduttore e partecipante e tra i partecipanti, viene privilegiata quella che Buber (1993) chiama relazione Io-Tu, contrapponendola al modello medico Io-Esso, in cui c’è un soggetto (il medico) e un oggetto (il paziente).
Secondo l’ottica di Buber invece, ci sono due soggetti unici che creano un incontro unico e irripetibile. L’attenzione costante all’utilizzo di diverse modalità espressive, in consonanza con un’ottica che privilegia la relazione Io-Tu, è lo sfondo su cui poggia l’esperienza oggetto di questo articolo: un laboratorio di teatro integrato con pazienti psichiatrici e normodotati.
A questo progetto ha dato vita la Cooperativa Panta Rei in collaborazione con l’Associazione Ig.art onlus. In generale, il lavoro mira all’integrazione sociale dei pazienti psichiatrici. Partendo da queste premesse, la Cooperativa porta avanti un laboratorio teatrale integrato tra persone con disagio psichico e operatori del settore (studenti, psicologi, operatori sociali) che è iniziato nel 2003 con un finanziamento della Provincia di Roma e prosegue ancora oggi con il sostegno delle Asl RM/B e RM/C.
In questi anni il gruppo ha lavorato in maniera continuativa realizzando numerose iniziative e spettacoli sia nel territorio della Provincia di Roma, che in quello nazionale.
Le patologie legate a disturbi di personalità riguardano la maggior parte degli utenti e presentano sintomi e aspetti diversi tra loro, ma si possono comunque rintracciare degli elementi che sembrano comuni ad ogni sofferente: difficoltà ad instaurare o mantenere relazioni, mancanza di fiducia negli altri, isolamento sociale, difficoltà ad assumersi o mantenere responsabilità.
Nonostante le diverse facce della sofferenza si possono quindi individuare anche elementi terapeutici comuni come ad esempio il bisogno di rafforzare l’autostima e l’autoefficacia, diminuire la paura della relazione, favorire l’uscita dall’isolamento sociale, stimolare l’interesse alla comunicazione e alla collaborazione.
Oltre a porsi questi obiettivi, il progetto di Teatro Integrato si propone di sostenere il miglioramento della qualità della vita delle persone diversamente abili e nello specifico portatori di disagio mentale.
Le attività di laboratorio sono proprio strutturate affinché si creino le condizioni e il clima adatto per poter sviluppare queste capacità. Esse infatti producono un consolidamento delle regole del gruppo (cooperazione, rispetto di orari e spazi ecc…) e un’ acquisizione di nuove competenze che determinano un innalzamento significativo del livello di autostima. Questo permette ai partecipanti di fissare punti di riferimento interni e di rendersi sempre più indipendenti dall’appoggio pratico ed affettivo dell’operatore, il quale, all’inizio, ha il ruolo di mediare le relazioni dell’utente con gli altri del gruppo e con le nuove tecniche e materiali. Si passa così dal sostegno esterno all’auto-sostegno.
Il progetto si sviluppa secondo l’ottica dell’intervento multilivello, che vede varie realtà sociali e istituzionali coordinarsi per offrire al paziente un percorso riabilitativo costruito valorizzando le differenze che lo caratterizzano come persona.
In questa ottica, l’inserimento lavorativo e l’autonomia abitativa assumono un’importanza centrale. I laboratori artistici possono essere una grande occasione se inseriti in percorsi articolati e multilivello che arricchiscano l’aspetto socializzante del paziente. La collaborazione con i servizi di cura e i referenti medici si rivela così essenziale affinché il laboratorio artistico non si sostituisca ad altri percorsi fondamentali, ma vada a completarli mantenendo chiaro l’obiettivo dell’integrazione sociale, lavorativa ed emotiva.
In questo senso l’arte può essere una grande occasione, ma mai dovrebbe essere l’unica di chi soffre di disagio psichico.
Il laboratorio di Teatro Integrato ha nello specifico come finalità quella della realizzazione di uno spettacolo, in cui il processo di costruzione teatrale diventa un processo di crescita personale all’interno di un’ottica in cui la relazione è al primo posto. L’assunzione di ruoli, nel gioco teatrale, ha una ricaduta positiva in termini di autostima ed ha un effetto positivo sulla sicurezza di sé, sul credere nelle proprie competenze e risorse personali. Il gruppo stesso, la compagnia teatrale, diventa una risorsa per il singolo e un punto di riferimento in cui a volte le relazioni che si creano vanno oltre l’orario delle prove.
Il percorso del laboratorio prevede un lavoro di costruzione di storie a partire da spunti personali, o da temi proposti dal conduttore. Gli utenti inventano una storia a partire da un tema e scelgono alcune scene specifiche da drammatizzare; tali scene vengono poi utilizzate come stimolo di discussione e di confronto. La costruzione delle scene è completata da materiali portati dagli utenti stessi, come ad esempio musiche, poesie o racconti scritti da loro. Quindi si parte da un tema, che può essere ad esempio il rapporto genitori-figli, l’amore, l’amicizia, il tradimento, la maternità, il viaggio, per arrivare alla creazione della storia e alla costruzione dei personaggi, al gioco di ruoli e alla drammatizzazione, alla condivisione e alla rappresentazione dello spettacolo.
Attraverso questo lavoro è possibile per il paziente anche ritrovare una trama di vita, un filo narrativo e la capacità di dare spessore ai personaggi, di mettersi nei loro panni e allo stesso tempo di guardare dentro se stesso.
Le immagini, i personaggi e i paesaggi mano a mano che si va avanti nel lavoro iniziano a trovare un movimento specifico uscendo dalla vaghezza e dalla fissità originaria e nello stesso tempo acquistano stabilità trovando un filo conduttore e un sistema di relazione con gli altri personaggi.
Proprio questa possibilità di recuperare, attraverso il gioco e il lavoro teatrale sui personaggi, il filo narrativo della propria storia e di ridarle fluidità è un fondamentale apporto della costruzione teatrale.
Antonio Ferrara (1999/2000) sottolinea come la narrazione “non si limita a riferire i fatti, ma ciò che è accaduto si cala nella vita del relatore” (Ferrara, 1999/2000, pag. 38).
Nell’inventare e nel raccontare storie di altri, nel caso del laboratorio quelle dei personaggi, i vissuti dell’esperienza originaria e personale possono risvegliarsi e le emozioni, le sensazioni e le immagini che appartengono al narratore si “ordinano e si danno pace”, proprio come avviene nel processo terapeutico. Ferrara porta l’esempio dell’adolescente che tiene un diario della propria esperienza e in questo modo costruisce la sua storia e la sua memoria, si focalizza sul proprio mondo interno producendo nessi associativi che facilitano lo sviluppo della consapevolezza.
Il personaggio può essere considerato un ponte che permette il passaggio dalla cristallizzazione di una personalità al mondo della possibilità e della scoperta.
Oliviero Rossi utilizza nel lavoro di costruzione di storie un’ulteriore forma di “distanziamento” (“Il teatro delle emozioni”, Rossi): il cambiare i riferimenti reali in fantastici: si cambiano i nomi e gli eventi, trasponendoli in un ambito di fantasia, di realtà metaforica.
Questo consente di osservare e allo stesso tempo partecipare alla storia, in un equilibrio tra ipodistanza e iperdistanza.
A questo proposito, Rossi sottolinea come il discorso creativo permette di assimilare l’altro-da-sé. L’interfaccia narrativo infatti, spinge ad avvicinarsi al diverso e consente di apprezzarlo come parte integrante della storia che si sta raccontando. Quando il diverso, l’altro-da-sè entra nella narrazione, diventa parte di un’unica identità collettiva e viene non solo integrato, ma riconosciuto come elemento indispensabile alla narrazione.
Queste operazioni di avvicinamento e rivalutazione del diverso, determinate da esigenze artistiche, hanno immediati riflessi sul processo di socializzazione e migliorano visibilmente la comunicazione tra i partecipanti del gruppo.
I prodotti che ne derivano, la storia e successivamente la sua messa in scena, possono essere utilizzati dalle figure terapeutiche di riferimento come “interfaccia” che consente di lavorare indirettamente sulle dinamiche personali e interpersonali rimanendo nei limiti di una distanza mediata dal lavoro “artistico”. In questo modo si agisce sul prodotto ma in realtà si lavora sul disagio. L’opera di “distanziamento” dal contenuto emotivo della storia, realizzato attraverso l’invenzione di un personaggio che parli per noi, permette spesso più facilmente di parlare di argomenti che può essere difficile affrontare direttamente. “Attraverso il role-playing, attraverso cioè il loro coinvolgimento in azioni e situazioni che richiedono loro di comportarsi “come se”, si può agevolare l’integrazione di aspetti di sé negati o proiettati” (Giusti, Ornelli , 1999).
Nel momento della produzione creativa, quindi, ciò che interessa non è tanto il risultato estetico del prodotto quanto il processo, che offre la possibilità di rivedere i propri comportamenti inconsapevoli e stereotipati e di aprire, quindi, nuove relazioni con se stessi e con gli altri.
A tal proposito vogliamo chiudere l’analisi di questo progetto con le parole di alcuni dei partecipanti attraverso i resoconti che hanno scritto sulla loro esperienza all’interno del Laboratorio, proprio per dar voce e spazio ai protagonisti del nostro intervento.

O.: “Il Laboratorio per me è un modo di esprimermi, di esprimere tutte le mie ansie, le mie paure e in un certo qual modo di migliorare me stessa, di riscoprire delle qualità in me stessa. Mi aiuta ad avere molta più espressività con gli altri.”

T.: “Il teatro mi aiuta a vincere la mia timidezza, mi aiuta perché stare a contatto con le persone è importantissimo.”

St.: “Il ruolo del gruppo è importante perché uno non è più da solo, ma viene aiutato da più persone.”

P.: “L’esperienza è nuova per me ed è abbastanza positiva perché mi ha fatto riscoprire il piacere di stare con gli altri e di partecipare nell’insieme dello spettacolo. A livello personale mi ha arricchito molto proprio per le scene che abbiamo creato che fanno riflettere, fa riflettere un po’ tutto lo spettacolo.”

Sa.: “Ricordo che spesso in famiglia mi dicevano di essere teatrale nel manifestare le mie emozioni negative, a dire il vero questa frase è stata tradotta dalla sottoscritta! In realtà mi dicevano che facevo le tragedie…e me lo dicono ancora ma ora non me la prendo male! In passato mi sembrava più anormale questo mio modo di essere, mi sentivo incapace di esprimermi serenamente. Così immaginavo che ci potesse essere un modo o un luogo per poter far le tragedie senza essere criticati, e pensavo che allora il teatro non era più tanto lontano.
Nel corso dei seminari non era più importante tirar fuori la rabbia dato che c’erano molte altre emozioni da incontrare, da conoscere.
In un altro momento di scelte importanti legate alle attività della mia vita a Roma ho deciso di dare più spazio concreto a questo fantasma del teatro; così a settembre 2006 ho iniziato a conoscere i ragazzi della compagnia Pantarei. Ricordo che dopo averli conosciuti la prima sera ho avuto un po’ di timore, avevo la sensazione che se avessi iniziato poi non sarei potuta tornare indietro. Ora chiamerei responsabilità quella sensazione di timore. Temevo anche di non saper stare nel gruppo, temevo la diversità poi andando avanti mi sentivo una di loro, mi sono sentita accolta, e alla fine mi divertivo a sentire le loro storie, i diversi modi di raccontare una storia, un sogno, un viaggio. Ricordo alcuni momenti spiacevoli quali la fatica di cercare il mio personaggio, la mia continua incertezza su come fare non avendo una tecnica, la sensazione di non essere capace. Ricordo anche la determinazione degli altri, il loro incoraggiamento a superare le mie paranoie, e infine la sera dello spettacolo ero felice di aver fatto ciò che mi faceva tanta paura.”

C.: “…allora mi sentivo di voler comunicare qualcosa e mi sono così interessato alla composizione di poesie sull’amicizia che non è fatta solo di belle parole, attingendo a dei singolari incontri di persone che avevano in comune l’insolita voglia di guardarsi indietro e creare.
Negli incontri che avvenivano per me in concomitanza con la frequentazione di un centro diurno si instaurò un buon affiatamento tra di noi.
Penso che non ci sentivamo in difficoltà perché ciò che facevamo e tuttora facciamo ci lega ad un arte bella che è quella del teatro.
Non sto parlando di un semplice passatempo ma di un impegno che richiede tempo e concentrazione. Non ho sviluppato particolari attitudini ma mi piace pensare di far parte di una compagnia teatrale. Mi sento di aver sperimentato un percorso artistico in cui c’è la possibilità di venirne fuori arricchiti. Ogni nuovo spettacolo mi rende sempre più partecipe anche se, comunque deve essere coniugato ad una vita che, fortunatamente, é fatta anche di altre cose che richiedono tempo e impegno.
Ho portato sul palcoscenico le mie emozioni e le mie idee; è stato come uno sfogarsi e un volermi mettere alla prova. Questo oltre essere uno sfogo è anche un lavoro faticoso. La mia vita di tutti i giorni è rimasta la stessa, con le stesse problematiche, ma l’affronto in modo diverso, si mi ha aiutato, mi ha aiutato parecchio.”

Silvia Adiutori – Presidente Cooperativa sociale Panta Rei
Marika Massara – Presidente Associazione Ig.art onlus

 

BIBLIOGRAFIA
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Basaglia, F. (2005) L’utopia della realtà, Einaudi, Torino.
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Redazione IPGE
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