Prefazione di Bruno Callieri
Lo sguardo, in questo bel volume di Oliviero Rossi, è intriso di atti carezzevoli, dove il carezzare è vicendevole, è carezzarsi, è un toccarsi d’anime, denso o di sfuggita, sfioramento o penetranza.
É nella carezza, della mano o dello sguardo, che si costituisce l’ordito immaginario della nostra vita emotiva e affettiva, dove il pratico precede il poetico, anzi ne costituisce e consente lo strutturarsi.
Credo che l’integrazione con l’altro avvenga tramite il carezzare e il carezzarsi, la pelle e lo sguardo, che si costituiscono in linguaggio autentico, pieno di silenzi comunicativi.
C’è una corrispondenza, e Oliviero lo sa bene, fra tenerezza e accoglienza, fra rifugio e sicurezza. L’accorgersi di questo legame che la carezza genera ha portato molti medici antropologi, per es. il significativo psichiatra spagnolo Juan Rof Carballo, a lamentarsi alquanto della miopia di una certa psico-analisi, che parla molto di sessualità a spese della tenerezza.
Mi viene in mente Virgilio, quando paragona le rifiniture del poeta al lavoro dell’orsa, che da forma ai figlioletti, carezzandoli ripetutamente con la lingua: senza l’amorevole ritocco della carezza l’essere umano non termina la sua nascita. Non bastano solo le vitamine: Renè Spitz, studiando la solitudine di certi neonati (forse destinati all’autismo) lo aveva ben capito.
La carezza, e con essa lo sguardo, ti apre al mondo, perché è così che nasci alla sicurezza, alla dualità, all’etre-a-deux. E lo sguardo che carezza ( questo profumo imbeve quasi tutte le pagine di questa creatura di Oliviero) non è solo pregno di erotismo: è l’affascinante richiamo al se tenir par la main, spesso preceduto dalla tenencia del se tenir par les yeux.
Questa tenencia, come appartentività, cioè appartenersi, a sé e all’altro-da-se, questa reciprocità è ,ne sono convinto, la dimensione costitutiva della persona: ce lo disse luminosamente Eugène Minkowski, ce lo ha mirabilmente ripetuto Jean-Luc Narcy, ripreso acutamente da Derrida; oggi ce lo ripete il nostro giovane amico Federico Leoni.
Ma per me, sic et simpliciter medico, ancorchè candidato antropologo, c’è, fondamentale, lo sguardo e il toccare clinico: sessant’anni fa, nel mio accedere al malato, dominavano la palpazione, con la curiosità esplorativa, ma sempre delicata e tenera, l’occhio clinico ( che distingueva il sentire dal sentimento, il noetico dal pratico, l’ arrossamento congestizio dall’ arrossire, la facies ippocratica pancreatica dal pallore malinconico, etc. ); invece oggi ci attendono subito, implacabili, le radio-immagini, sempre più perfezionate, che quasi tutto svelano e anche ri-velano.
E qui coglie appieno il significato del libro di Oliviero Rossi: “Lo sguardo e l’azione”: l’essere toccato e l’aggrottarsi della fronte del medico, l’essere svelato con lo sguardo e il sentirsi addosso un responso, atteso, sperato, temuto. Dove il cuore pulsante, riflesso nel video, è anche il cuore che ha le sue pascaliane ragioni.
Ecco perché questo sguardo e quest’ azione, ( hanno ragione sia Cesare Frugoni o Augusto Murri sia Pedro Lain Entralgo o von Gebsattel ) sono una vera esperienza umana, sono un linguaggio: guardare una radiografia è diverso dal guardare la fotografia inviata dall’amante lontano/a.
E questo linguaggio mi fa pensare anche alla valenza magica, sacrale, religiosa del toccare e dello sguardo ( dal Re di Francia taumaturgo al sacerdote consacrante …..); e, tornando alle nourritures terrestres di Andrè Gide, mi fa pensare anche allo “sguardo e all’ azione” dei due boscaioli taglialegna, di cui parla Victor von Weitzsacker, o dei due ciclisti in tandem, o all’incontro duale di reciprocità fra psicoterapeuta e analizzando.
Lo sguardo, in questo contesto ma pure in molti altrove, consente anche una sorprendente apertura alla dimensione del non verbale, del silenzio ( di cui tanto appresi da Giorgio Manganelli, di cui fui impegnato interlocutore). La valenza diagnostica e terapeutica della gestualità e della mimica sono ampie e profonde: le vivo quasi quotidianamente già nel semplice dialogo anamnestico, che non è affatto un noioso gioco preformato di domande e risposte; ma soprattutto lo vivo nel mio ritmato incontro con il cosiddetto paziente, che diviene fecondo vivaio di reciprocità des consciences ( come dimenticare qui Maurice Mèdoncelle ? ).
La psicopatologia di questa reciprocità è un vasto territorio spesso sconosciuto, ricco di ostacoli, di inganni, di pseudo-sentieri (le Holzwege di Heidegger) , spesso affrontati con la sicumera cui ci dà appiglio la tecnica, che , cum timore et tremore, vedo oggi prevalere, anzi prevaricare: dai questionari ai tests strutturati e quantificati.
Qui la psicopatologia ci svela paesaggi squallidi o deformati, specialmente tra gli adolescenti e i giovani: indifferenza, apatia, distacco, noia, disimpegno, o esplosività criminogene tanto più dure quanto più inattese, forse anche a genesi mass-mediatica ben più profonda della emergenza di un iceberg.
E avviene che il trionfo della tecnica ( penso a Umberto Galimberti) trascini con sé, a tutto spessore, la parte interpersonale (zwischenmenschliche) dell’ incontro medico-paziente, con il naufragio della “ storia interiore di vita”, del mondo vissuto (la Lebenswelt), della identità come narrazione, come metafora, della diagnosi come “sapere del tra”.
Il clinico medico, si diceva ai miei tempi, ha il sesto senso: non tanto aver visto molti casi, quanto invece averli visti come persone, come un altro uomo, malato.
Celso, medico romano del 1° secolo, diceva che non omnibus aegris eadem auxilia conveniunt, non a tutti gli ammalati giova lo stesso aiuto: un mio paziente, ex-schizofrenico, medico, mi ha scritto tempo fa, in una cartolina del suo paese, “ carissimo Professore, ogni giorno la penso affettuosamente e le sono grato per la sua amicizia”: non tanto della cura egli mi è grato quanto dell’ amicizia.
Senza l’ amicizia che mi lega ad Oliviero non avrei potuto scrivere queste note in margine al suo libro, quasi, freudianamente, come un post-scriptum, un après-conp, un machtraglich.