Barrie Simmons

Intorno al ruolo della teoria nella psicoterapia

Di Barrie Simmons

Il contributo è tratto dai seminario organizzato dalla Cattedra di Psicologia Fisiologica dell’Università degli Studi di Roma (Prof. Riccardo Venturini) dal tema: “il ruolo della teorizzazione nella psicoterapia”.

Articolo a cura di Oliviero Rossi
Pubblicato in “Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria” N.1 – ottobre/ novembre 1989

La psicoterapia è spesso definita come un’attività rivolta verso una presa di coscienza, supponendo che da questa derivi un cambiamento del comportamento e del modo di porsi nel mondo, che possa in qualche modo soddisfare i bisogni dell’individuo. Un’altra visione suggerisce che l’insight o la presa di coscienza è un prodotto, un epifenomeno del processo di cambiamento, per cui l’individuo crescendo o cambiando “si accorge di”, ma non è questo il motore del cambiamento. In ogni caso, quando parliamo della presa di coscienza, o come io sono abituato a chiamarla “consapevolezza”, possiamo distinguere due tipi di attività: una consapevolezza o coscienza intellettiva e una consapevolezza organica, a questo riguardo sappiamo che quando tra di loro vi è una discrepanza, o addirittura una scissione ci troviamo davanti ad un organismo in difficoltà che sta regredendo ad uno stadio di minore organizzazione.
In questa prospettiva la teorizzazione sarebbe una reazione all’ansia, un tentativo di gestire una situazione pericolosa o disorientante tramite la scissione, un tentativo di gestire una situazione di cui si ha poca esperienza, poca padronanza, in un certo senso poca conoscenza. Dire questo è ovvio, perché si teorizza e si riflette su una cosa che non si capisce; se sai, se hai piena padronanza ed esperienza, non sei spinto a questo tipo di attività.

In altro modo si potrebbe dire che la teorizzazione è un tentativo di rendere l’ignoto, o al limite l’inconoscibile, conosciuto, un tentativo di sottomettere il cervello di destra al controllo di quello di sinistra. Da sempre è stato detto che non si può guardare direttamente la faccia di Dio, da sempre sappiamo che non si può capire, integrare e strutturare direttamente tutta la contraddizione, tutta la mutevolezza, tutta la densità della realtà. Quindi la teorizzazione può essere al massimo una approssimazione, un tentativo, destinato a fallire, di controllare l’incontrollabile; dire che da un punto di vista squisitamente terapeutico sia una attività patologica, cioè un’attività difensiva promossa o provocata da una situazione impossibile, non è condannarla. Patologia e sbaglio sono sempre (sto teorizzando) tentativi di andare oltre, sono sempre tentativi creativi, esperimenti nell’innovazione e nell’adattamento.

Nella situazione psicoterapeutica, non possiamo fare a meno del tutto di una definizione, per esempio degli “scopi del lavoro”, anche se la loro definizione o quella di un “modello di guarigione” è molto approssimativa. Comunque, l’esistenza di un modello o definizione può promuovere una tensione in una certa direzione, funzionare da calamità, avere un valore euristico all’interno del lavoro terapeutico. Invece, trasformato in compulsione, in un continuo paragonarsi ad un modello, in un colpevolizzarsi per non arrivare allo scopo, diventa di-sastroso. E’ questo, io credo, uno dei meccanismi che fa nascere la terapia interminabile.

L’ideale, vissuto come “obbligo”, che crea quell’autotortura che noi chiamiamo “migliorarci”, non è caratteristico solo della psicoterapia. Quando noi parliamo del “modello di guarigione” o degli “scopi della terapia”, ci stiamo riferendo alla situazione propedeutica al futuro rapporto che si presenta all’inizio della psicoterapia. Ogni individuo si presenta (io sto generalizzando e teorizzando) con un’autodescrizione particolare, con un modo di porsi specifico, o con una dichiarata problematica perché consapevolmente o no ha una difficoltà ad essere vicino a se stesso, ha una difficoltà a fare quello che vuole, sta facendo quello che non vuole. Quasi sempre, non sa cosa vuole, non sa stare in “contatto con”, “accanto a” se stesso, condizione che viene diversamente descritta nella letteratura come mancanza di “autoaccettazione” o “individuazione”.

Paradossalmente, un individuo può non essere vicino a se stesso perché è incapace o impedito, o meglio in qualche modo si impedisce, di essere vicino agli altri, ha paura che permettendosi di agire, di essere, diverrà manifesta la sua inadeguatezza, per cui sarà rifiutato. Questa persona non tollera l’ansia di quell’isolamento. La difficoltà ad essere vicino agli altri può, naturalmente, essere vista in molti modi: c’è la paura di amare, c’è il timore di cadere nella dipendenza, e finire legato e vincolato.

Anche la rabbia non risolta, non indirizzata verso l’oggetto appropriato, diventa un sentimento indifferenziato che impedisce la vicinanza, rendendo difficile la sicurezza nello stare con gli altri. Il “contatto” è necessariamente con il campo nella sua totalità, non solo con sé o con l’ambiente, il blocco dell’interazione con gli altri comporta, quindi, l’eclissi di se stesso.

In questo momento io non sto tentando di descrivere in profondità questa situazione, ma ne sto descrivendo solo due o tre aspetti. lo immagino che tra gli scopi della psicoterapia ci sia innanzitutto il permettere o il facilitare che l’individuo sia se stesso e con se stesso, agisca da sé e non perché spinto da modelli, regole o aspettative esterne a sé. Ma se uno psicoterapeuta sta applicando delle regole e dei modelli, se sta teorizzando e tecnicizzando come può dare quello che non ha?

Un secondo scopo della psicoterapia, come già indicato, sarebbe quello di facilitare, permettere o promuovere una maggiore possibilità di contatto diretto, di rapporto con l’altro. Se lo psicoterapeuta mette tra sé e l’altro un diaframma, un muro di teoria, di preconcetti, non c’è un contatto vitale. Se nella seduta quando sta davanti ad un individuo, alle sue espressioni, alle sue mosse, agli stimoli, alle microespressioni, il terapeuta invece di stare lì, con quest’altro e con sé, ha la testa piena di diagnosi, prognosi, teorie etiologiche, ricordi di situazioni precedenti, controlli, verifiche ecc., dov’è la possibilità di incontro? Se lo psicoterapeuta presenta un prototipo di distanza e di difesa, non ha diritto né possibilità di successo nel promuovere nel paziente la capacità di entrare direttamente in rapporto. A sua insaputa, il terapeuta sta rinforzando, con il suo esempio, l’essere bloccato da preconcetti, da ruoli, e dalle inibizioni di antichi condizionamenti.

Un terzo scopo della psicoterapia sarebbe quello di facilitare, promuovere nel paziente la capacità di tollerare l’ansia, leit motiv inevitabile della vita: l’ansia di sbagliare, di essere rifiutato, di essere emarginato, l’ansia di non approvare se stesso e non solo di non essere approvato dagli altri. Se il terapeuta non tollera l’ansia, se ha il terrore di sbagliare, e quindi si aggrappa ad una teoria, una tecnica o a delle regole, pur di non sbagliare, allora non si concede lo spazio di essere presente e di affrontare la realtà che sta vivendo. Come può promuovere la tolleranza all’ansia e la libertà del paziente? Chiaramente non può, perché il paziente è un individuo reale con occhi e orecchie, capace di percepire. Quando si trova davanti l’ennesimo modello di autocastrazione, ed autocontrollo, impara solo quello che riceve, può ricevere solo quello che gli è dato. Le intenzioni o la predica dell’operatore non può sostituire il suo comportamento reale: queste sono alcune delle difficoltà e dei pericoli della teorizzazione. Qualcuno può aver notato che ho un po’ amalgamato teoria, tecnica e anche un terzo fattore, “il ruolo”: teoria, invece di percezione di se stesso e quindi del campo e dell’altro; tecnica, piuttosto dell’azione che viene dalla percezione, cioè dalla propria percezione di cosa sono e di cosa ho bisogno, di cosa sei e di cosa hai bisogno; ruolo, un’altra dimensione di regole e di modelli, piuttosto che un comportamento radicato nella propria consapevolezza della situazione mutevole, contraddittoria, reale. In questo discorso è implicito lo sgradevole suggerimento che per incoraggiare, spingere il paziente ad aumentare la tolleranza dell’ansia, la sua capacità di contatto diretto e con se stesso e con l’altro, il terapeuta deve rinunciare a quel tranquillante che è la teorizzazione. Questo ovviamente è molto sgradevole perché, come il paziente, anche il terapeuta non ha voglia di rinunciare al suo tranquillante. Rinunciarci, significa decidere di affrontare la situazione sconosciuta per quello che è, cioè sconosciuta, quindi fantasmaticamente ansiogena perché va proprio a toccare quelle aree della propria personalità di cui si nega la consapevolezza.

Allora, escludendo teoria, tecnica e altri psicofarmaci, come posso proteggermi io terapeuta, come posso sostenermi, dove trovo sicurezza? A questo punto vorrei puntualizzare che secondo la mia “teoria”, quando si parla di psicoterapia come professione si sta parlando di un’arte. Senza teoria, come posso prendere decisioni, come posso fare scelte? Sviluppando un processo intuitivo, acquistando un’esperienza simultaneamente di contatto con me, di contatto e di rispetto per l’integrità dell’altro, accrescendo la capacità per agire, non tecnica e non teorica, ma reale. Tutto ciò non è facile.

Uno degli elementi centrali per praticare l’arte della psicoterapia è quello di sviluppare una durezza, una abilità alla sopravvivenza, concretamente il saper non essere spezzati. Così, ci permettiamo, per esempio, di subire il dolore della separazione ogni volta che interrompiamo un contatto, ogni volta che la terapia si chiude, non attaccandoci al paziente, non tenendolo in terapia interminabile, autorizzandoci (anche se sembra “cattiveria”) di non aver bisogno del bisogno del paziente. L’assuefazione del terapeuta alla terapia è una ennesima variante dell’intolleranza dell’ansia, del rifiuto di nuotare da soli. L’unica alternativa a questa durezza è il ritirarsi ad una distanza sicura, cioè non partecipare, immettere tra sé e il paziente il muro di non contatto, che potrebbe essere la teorizzazione, la “neutralità terapeutica”, la razionalità professionale, o qualche altro sintomo.

Un’altra componente della terapia è lo sforzo di aumentare l’ansia del paziente, offrendogli allo stesso momento l’accettazione, in un certo senso la protezione, che gli consenta di osare. Quindi il terapeuta allo stesso momento dà incoraggiamento, per cui il paziente “può”, e una spinta, spesso una frustrazione, per cui il paziente “deve”.

Una terapia che fosse unicamente incoraggiamento, sarebbe una protezione materna fatalmente destinata ad impedire qualsiasi crescita o autonomia del paziente; una terapia che tendesse unicamente a spingere e a premere, sarebbe una tirannia, un sadismo paterno, ugualmente destinata ad impedire la crescita e l’autonomia del paziente. Un terzo elemento, oltre l’incoraggiamento e la pressione, è la funzione del terapeuta come modello, che presenta simultaneamente il contatto diretto io-tu e il contatto con se stesso, tramite la comunicazione delle sue fantasie ed esperienze, il parlare con il suo linguaggio più personale e soggettivo, l’osare e sbagliare, il mettere in evidenza la sua esistenza come persona, e non solo il suo bagaglio teorico e tecnico.

Un elemento importante è la capacità del terapeuta di essere imprevedibile, perché reale, quindi contraddittorio, al limite, confusionario come siamo tutti quanti. A volte si unisce con il paziente, a volte si separa da lui, a volte è per il paziente, a volte è contro di lui, a volte preme e a volte non chiede niente, insomma è libero, ma questo è molto difficile per un terapeuta che deve essere approvato da se stesso, dai colleghi e dalla mamma.

Un terapeuta efficace è libero di non chiedere cambiamenti, di non spingere per la guarigione, è libero di starci e basta. A volta questa è la prima volta che il paziente incontra una persona che non vuole il suo “miglioramento”, che non sta lì a premerlo, spingerlo ed incoraggiarlo, plasmarlo e plagiarlo, e questo è anche apprendimento.

I modelli di guarigione, l’autoaccettazione, la piena flessibilità, la libertà, il possesso del proprio potere, che sono modelli del terapeuta ideale, sono anche modelli del paziente ideale, capace di un’accettazione incondizionata, profondamente intuitiva.

Io sto suggerendo che lo psicoterapeuta, crescendo, può acquistare sicurezza non più dalla teoria, dalla tecnica e dal ruolo ma dall’esperienza, dal rispetto per i suoi desideri e bisogni, e dal rispetto per l’integrità del paziente. Oltre l’acquisizione di sicurezza nella situazione professionale e terapeutica c’è anche l’acquisizione di una maggiore sicurezza di vita. Invece di essere protetto da fantasmi, da teorie, il terapeuta, ammettendo il suo bisogno, e la sua impotenza (che secondo me è una delle cose più preziose che abbiamo), ammettendo la sua ansia, può trovare situazioni di “dipendenza” più produttive, fonti di reale aiuto. Un esempio potrebbe essere, nella situazione psicoterapeutica, la supervisione: e qui non parlo della dittatura, o del trasferimento della responsabilità ad un altro, ma della legittimità di chiedere aiuto ed intervenire sui miei problemi con una persona che ha più esperienza di me.

Mi preme mettere in evidenza che la patologia, gli sbagli (tuoi e del paziente) inclusi quelli del teorizzare, sono in fondo tentativi creativi, esperimenti nell’andare oltre; questo non vuoi dire che siano per forza tentativi riusciti, esperienze o esperimenti che danno la verifica o la scoperta desiderata, ma certamente non sono da evitare o da colpevolizzare, dato che sono fonti di apprendimento.

La teorizzazione è un tentativo simultaneamente di ottenere contatto e distanza, un’alternativa sia alla partecipazione piena, che alla fuga completa, però come ogni compromesso, come ogni sintomo, contiene il conflitto e non lo supera. La soluzione non è evitare questo sintomo ma essere consapevoli del conflitto, in contatto con esso, quindi tollerandone l’ansia e il dolore anche se lacerante.

Sarebbe bello non avere conflitti, e chi vuole può aspettare l’arrivo di una tale evenienza, ma nel frattempo le uniche alternative che abbiamo sono vivere i nostri conflitti inconsapevolmente o viverli consapevolmente (cioè con contatto), tollerare l’ansia o difenderci da essa.

La teorizzazione è un tentativo di compromettere questa situazione ed è un po’ paragonabile al fantasticare mentre fai l’amore. Probabilmente la presenza di questa fantasticheria è in misura diretta, proporzionale al grado di ansia, dunque al grado di voluta distanza.

Niente di male, a volte il distacco è piacevolissimo, però se si persiste a lungo andare, se per forza quando si fa l’amore con tale persona si deve pensare ad un’altra persona, forse c’è qualcosa che non va in quel rapporto. Importante è proteggersi autenticamente, imparare a dimenticare quando una situazione è finita, imparare a perdonarsi, a permettersi di essere. Dobbiamo accettare il bisogno che ognuno di noi ha di protezione, e forse cercare fonti reali di protezione, fonti reali di serenità e di sicurezza piuttosto che quelle fantastiche della teoria, della tecnica e del ruolo. A lungo andare io credo che si possa acquisire un’esperienza e un rapporto con se stessi e con il campo, con l’ambiente, che ci renda, se non assolutamente liberi, molto più autonomi. Tale processo è analogo a quello che porta il paziente ad emanciparsi dalla cultura della famiglia di origine. Certo noi portiamo per tutta la vita le tracce delle nostre origini ed è probabile che andando avanti un individuo porterà sempre con sé l’eredità storica di aver avuto una formazione reichiana o gestaltistica o rogersiana o quello che sia, ma non siamo condannati a rimanere lì e ugualmente non siamo condannati a trovare in continuazione nuovi dogmi, nuove regole, nuove inibizioni, nuove fantasie; né siamo condannati a lasciare tutto il campo perché non si capisce nulla. Abbiamo la possibilità di andare avanti come individui reali, non Dei, non del tutto adeguati alla situazione, ma facendo del nostro meglio ed ottenendo dei risultati reali.

Redazione IPGE
istitutogestaltespressiva@gmail.com